Terrrismo Etiope: complicita’ e silenzi
Monti sostiene Hollande in guerra contro il MALI in nome del terrorismo. Lo stesso Monti sostiene il governo Etiope che pratica il terrorismo.
Il tutto senza che nessun giornale o TV chieda conto del silenzio e della complicità del governo o almeno informi della strage fatta dall’esercito etiope nei confronti della popolazione SURI.
Per questo riportiamo questo scritto di Medea Giò, che condividiamo, per dare ai lettori quelle informazioni che non hanno dalla Tv, anche se pagano il canone.
la Redazione
Che schifooooo…….154 persone massacrate ed uccise per rubargli il terreno ed in italia nessuno ne parla….questo è il valore che si da alla vita umana, nessun valore, non è una notizia meritevole da denunciare per l’ eccidio di donne, uomini e bambini….persone che avevano il diritto di vivere….ovvio, i media italiani sono interessati a corona….cosa sono 154 etiopi uccisi?….non sono nulla
MEDIA ITALIANI: DOVE SIETE?
La notizia del massacro del Governo etiope è stata riportata in alcuni media esteri. Dove sono i media italiani?
Il 28 dicembre 2012, 147 membri della tribù dei Suri, la maggior parte dei quali donne e bambini, sono stati massacrati dai soldati governativi etiopi, che volevano sfrattarli dai loro terreni.
I Suri vivono nel sud dell’Etiopia nella zona Maji e sono divisi in tre gruppi: Chai, Tirmaga e Balessa. Suri è un nome che identifica tutti e tre i gruppi. Questi gruppi sono simili ai Mursi che vivono oltre il fiume Omo, nella parte est. Queste quattro tribù hanno usi e culture similari e la stessa lingua.
Oggi sono tutti vittime di espropri dei loro terreni da parte di investitori stranieri favoriti dal governo etiope. Le azioni di questi investitori stranieri supportati dal Governo sono catastrofiche per queste popolazioni.
La italiana Salini S.P.A. è coinvolta nella costruzione di una diga (denominata GIBE III) sul fiume Omo, fiume che con le sue piene stagionali regola da sempre il flusso idrico di queste zone. La diga dovrebbe entrare in funzione nel 2014 e sarà una delle più imponenti di tutta l’Africa, andando a sconvolgere l’ecosistema della valle dell’Omo.
Il motivo dei massacri dipende dai piani di reinsediamenti delle popolazioni locali da parte del Governo etiope, dal momento che questa area è stata data in locazione a una compagnia mineraria per l’estrazione dell’oro. I Suri hanno resistito a spostarsi lontano dall’area e le persone che lavorano per la compagnia quindi hanno difficoltà ad espandere gli scavi.
Il mattino i militari etiopi sono arrivati nel villaggio Balessa Suri di Beyahola (che significa roccia bianca) e hanno circondato gli abitanti del villaggio. Hanno poi arrestato tutte le persone del villaggio, uomini, donne e bambini e hanno legato le mani a tutti. li hanno poi condotti nella foresta ed hanno sparato a tutti loro, eccetto sette ragazzi che sono riusciti a fuggire. Era un villaggio di 154 persone. La ragazza nella foto è una delle persone uccise.
Il Governo etiope ha tentato in tutti i modi di far si che le persone non riportassero la notizia del massacro ma grazie a Dio la notizia è trapelata.
Come possono i governi, compreso quello italiano, appoggiare il Governo etiope coinvolto in questa strage? Non si suppone che i nostri governi siano contro il terrorismo?
I corpi sono stati poi seppelliti in fosse comuni nella foresta. Qualcuno è stato gettato nelle vicine miniere non lontane. Qualche altro è stato lasciato sul posto preda di avvoltoi e iene. La maggior parte dei bambini sono stati gettati nel fiume Akobo. Dopo il massacro i militari hanno minacciato di fare anche peggio a quelli che avrebbero parlato dell’episodio.
Il massacro delle tribù dei Suri sta ancora procedendo e diventa peggio ogni giorno che passa ma ci sono rare testimonianze di ciò che succede in quella zona e si può capire il perché.
Media italiani: DOVE SIETE? DOE SIETE? DOVE SIETE?
Fonte: pagina faceboock di Medea Giò
Da Utopia Rossa uno scritto di Pier Francesco Zarcone
Cosa è successo prima
Preliminarmente va chiarito che il Mali è uno dei classici frutti della spartizione coloniale disegnata a tavolino con attribuzione di indipendenza solo formale: costituito nel 1960, è uno Stato fasullo, per non dire fallito, con povertà diffusa, economicamente subordinato alla Francia e con grossi problemi etnici al suo interno. Anche qui corruzione diffusa a tutti i livelli, a partire dal coinvolgimento di politici maliani nei traffici di armi, droga ed esseri umani, compreso il fatto che l’ex presidente Amadou Toumani Touré e i suoi ministri hanno intascato milioni di dollari ricevuti dal Fondo monetario internazionale per la lotta contro l’Aids.
Al momento dell’intervento francese il governo del Mali aveva perso il controllo su circa il 60% del territorio a motivo della rivolta separatista dei Tuareg del Nord. I numeri della popolazione Tuareg sono controversi anche per la mancanza di censimenti capaci di dirimere la controversia: si va da un totale di 3.000.000 alla cifra più bassa di circa 1.600.000: essi sono stati divisi dalla spartizione coloniale in ben 5 Stati: Mali, Algeria, Niger, Burkina Faso e Libia. In Mali sarebbero tra i 400.000 e i 500.000.
Tuareg in un campo profughi in Mali (fotografia di Pino Bertelli, gennaio 2013)
A fine gennaio dello scorso anno i Tuareg maliani avevano dato un forte impulso alla lotta armata contro il governo del Paese, contro cui combattevano da anni. L’impressione era che i Tuareg fossero guidati dal Mnla o Movimento per la Liberazione dell’Azawad, nome con cui essi designano il Nord del Mali. In questa regione – abitata da varie popolazioni essenzialmente nomadi: Tuareg, Arabi, Peul, Sonrhaïs – i Tuareg lamentano di essere vittime di pesanti discriminazioni che ne fanno cittadini di serie B.
Verso la fine di marzo 2012 Toumani Touré è stato deposto da un golpe militare guidato dal capitano Amadou Sanogo, ma il governo di transizione – teoricamente capeggiato da Diocounda Traoré come Presidente (il Primo ministro è Cheick Modibo Diarra) – è sprofondato nel caos politico (conflitto fra Traoré e Diarra) aggravato dal fatto che i Tuareg, malamente alleatisi con vari gruppi islamici jihadisti e successivamente da questi soverchiati, avevano praticamente conquistato tutto l’Azawad, comprese le città di Kidal, Gao e Timbuctu. Di questa alleanza si parla almeno da gennaio dello scorso anno, e a febbraio – dopo i massacri efferati compiuti dai ribelli nella città nord-orientale di Aguelhock – fu il ministro francese per lo Sviluppo, Henri de Raincourt, a denunciare il ricorso dei ribelli a metodi tipici di al-Qaida.
Il governo francese non condannò il golpe di Sanogo, e anzi in certi ambienti si diffuse l’opinione che in realtà la Francia giocasse due carte nella partita maliana: cioè che appoggiasse sia i ribelli Tuareg dell’Mnla sia i golpisti di Bamako. I Tuareg dell’Mnla sono presto entrati in conflitto con i jihadisti, subendo una sconfitta che ha fatto cadere nella mani di questi ultimi quasi tutto l’Azawad. Oggi – almeno in base alle dichiarazioni rese il 14 gennaio di quest’anno da un esponente dell’Mnla, Moussa Ag Assarid – i militanti di questa organizzazione (presenti ancora nell’estremo Nord del paese) sarebbero disposti a unirsi alle forze francesi nella lotta contro i jihadisti. Se ciò fosse (e forse così sarà) la partita doppia attribuita a Parigi diverrebbe palesemente più complicata.
Dei jihadisti la stampa internazionale ha diffuso varie notizie, soffermandosi sulla situazione di tipo talebano imposta nei territori conquistati (rigida applicazione della loro interpretazione della sharía, semireclusione per le donne, niente musica né gioco dal calcio, alcoolici manco a dirlo ecc.). Meno note sono invece le gesta dei Tuareg, all’opposto dello stereotipo dei “romantici Uomini Blu” ancora radicato nell’immaginario collettivo occidentale (saccheggi, stupri, arruolamento forzato di bambini, detenzioni arbitrarie, esecuzioni sommarie e quant’altro).
Ombre sul ruolo della Francia antecedente all’intervento
Il ruolo della Francia nella rivolta tuareg risulta dall’esterno notevolmente ambiguo. Nello specifico va detto che c’è stato uno zampino francese in tale rivolta (così come probabilmente è stato per la rivolta di Bengasi in Libia). È dall’aprile dello scorso anno che si vocifera di un accordo tra il governo francese e l’Mnla: quest’ultimo, a fronte del sostegno politico, finanziario e strategico francese si sarebbe impegnato a ripulire la zona dai jihadisti e a garantire l’affidamento delle risorse petrolifere dell’Azawad a società francesi. Palesemente si è verificata una situazione diversa, e qualcosa è andato storto. Resta però aperto l’interrogativo su chi abbia fornito ai Tuareg le armi e la logistica necessarie a concretizzare la rivolta, che non è un gioco da bambini. Il fornitore deve per forza essere di un certo calibro.
La questione però si complica, e assai, in una prospettiva internazionale. Secondo il notissimo settimanale Le Canard Enchaîné non va affatto escluso un ruolo dell’ormai famigerato emirato del Qatar nell’attività jihadista in Mali, e della cosa sarebbe consapevole da molto tempo lo stesso governo francese. Addirittura il 6 giugno dell’anno scorso Le Canard Enchaîné ha pubblicato un articolo dal significativo titolo “Il nostro amico Qatar finanzia gli islamici del Mali”!
Tuareg in un campo profughi in Mali (fotografia di Pino Bertelli, gennaio 2013)
Tuttavia – e qui sta la complicazione – sempre secondo tale periodico sarebbero in atto trattative “discrete” tra il Qatar e la gigantesca società francese Total per coordinare lo sfruttamento delle risorse naturali maliane, con grande disappunto dell’Algeria, che non vede per niente di buon occhio l’espansione del Qatar, tra l’altro notoriamente finanziatore del radicalismo islamico (del quale gli Algerini curano ancora le ferite ricevute).
Si affaccia qualcun altro sullo scenario maliano?
Per il momento il ruolo della Gran Bretagna appare ancora marginale. Dal ministro britannico William Hague sappiamo però che il suo paese sta finanziando la costruzione di una base militare al confine algerino per la lotta contro al-Qaida nel Maghreb.
In atto anche gli Stati Uniti sembrano restare fra le quinte. Sembrano. Se è difficile affermare che il golpista capitano Sanogo abbia legami attuali con gli Stati Uniti, al di là dell’aver ricevuto una formazione militare a Quantico, in Virginia, più facile è invece affermare l’interesse statunitense per il Sahel, ricco di giacimenti minerari e frontiera fra Africa araba e Africa nera. Al riguardo abbiamo l’apporto del Washington Post, dove il 13 giugno 2012 è comparso un articolo illuminante più per ciò che non dice. Secondo questo giornale Forze Speciali Usa, con l’apporto di mercenari (contractors) e militari africani, sarebbero all’opera in Mauritania, Nigeria e Mali con operazioni segrete in funzione antislamista e con l’obiettivo di evitare il delinearsi di situazioni che poi portino a scenari tipo Afghanistan e Iraq. Secondo il Washington Post, gli Stati Uniti hanno costituito una rete di piccole basi aeree per azioni di spionaggio circa i movimenti degli islamisti e per l’intervento di droni.
Mali, fotografia di Pino Bertelli (genn. 2013)
Premessa di metodo circa il discorso sull’intervento
Per rispondere all’interrogativo posto dal titolo da noi posto all’inizio, non è male utilizzare la distinzione interpretativa (tipica in diritto) fra causa e motivo dell’azione. Non si tratta di due sinonimi, giacché il primo termine attiene a qualcosa di strutturale, mentre il secondo si inquadra nel contingente (per esempio, nella compravendita la causa è lo scambio di cosa contro prezzo, il motivo è il bisogno di una certa cosa in un dato momento).
Prima di applicare questa distinzione all’operazione francese in Mali ricordiamo che in linea di massima esiste una regola non scritta per cui sono le ex (?) vere potenze coloniali (cioè Francia e Gran Bretagna) a fare fronte ai problemi che insorgono nelle ex (?) colonie, salvo loro debordamenti di rilevanza strategica tali da implicare interventi di terze forze di maggior calibro. Questa regola la Francia l’ha sempre gelosamente difesa e messa in atto (si ricordi l’intervento nella crisi della Costa d’Avorio) e d’altro canto è l’unico paese a tenere basi militari (come quella di N’Djamena, da cui partono i raid aerei) nei vecchi territori coloniali; nello stesso Mali dispone di basi a Bamako e Tessalit.
Il motivo dell’intervento francese risulta da un semplice sguardo alla carta geografica. La posizione assolutamente strategica del Mali nell’area subsahariana fa sì che la sua trasformazione in santuario di un radicalismo islamico jihadista e in espansione – con la certezza che poi tornerà a devastare l’Algeria, metterà a subbuglio Mauritania e Niger, potrebbe agire in Marocco e Tunisia (ricordiamoci dell’Aqmi-al-Qaida per il Maghrib islamico) , creare canali di collegamento con il Boko Haram nigeriano e magari creare in Egitto situazioni ancor peggiori delle attuali, per fermarci qui – non sia tollerabile per la sua pericolosità presente e futura.
Detto più sinteticamente, una vittoria dei jihadisti in Mali destabilizzerebbe tutta l’area e aprirebbe loro la via a due direttrici di marcia strategicamente rilevanti: verso il Maghreb e verso l’Africa Occidentale.
Dal punto di vista formale la Francia ha l’appoggio dell’attuale governo di transizione del Mali e sul piano “umanitario” ha a suo attivo il fatto che i jihadisti sono considerati come la peste dalla maggior parte della popolazione locale (i profughi sono più di 200.000), sia per la loro violenza e le intollerabili condizioni di vita imposte nelle zone conquistate, sia per l’essere portatori di un’ottusa concezione dell’Islam estraneo alla religiosità maliana (molto influenzata dal sufismo).
Ai fini del consolidamento di ciò che definiamo il motivo, sarà importante l’arrivo di contingenti di altri Stati africani dell’Ecowass (Comunità Economica degli Stati dell’Africa Occidentale), cioè di Burkina Faso, Costa d’Avorio, Nigeria e forse Senegal. E soprattutto la ricostituzione della capacità operativa dell’esercito del Mali.
A questo punto dobbiamo dire qualcosa proprio sui ribelli islamisti. Il loro numero non è sicuramente elevato: potrebbero non arrivare ai 2.000 combattenti, non tutti maliani. Tra essi si trovano jihadisti algerini, tuareg che erano stati agli ordini di Gheddafi, gruppi legati al traffico della droga e criminali specializzati in sequestri di persona. Il numero però non è significativo, poiché si dovrà vedere come se la caveranno fra le sabbie una volta che abbiano perduto il controllo delle città in precedenza conquistate d’impeto.
Che i jihadisti siano pochi non dice niente nell’immediato e va pure evitato di considerarli un banda di sciamannati di poco conto, eliminabili con semplici operazioni di polizia: si tenga presente che dei combattenti possono dare filo da torcere al nemico se ben armati, equipaggiati e addestrati oltre che adeguatamente motivati psicologicamente. Tutto questo esiste già. I jihadisti sono degli esaltati sunniti, indottrinati da gente saudita o del Qatar, finanziati dall’esterno, spietati con gli stessi musulmani che non la pensino come loro. In più dispongono di una montagna di armi e munizioni e di circa 200 pickup 4×4 armati. È prevedibile che sul piano militare la partita per la Francia di rivelerà dura.
Con questa notazione dobbiamo rifarci all’abbattimento del regime di Gheddafi (Mu’ammar al-Qadhdhaafii) in Libia. Nel caos politico seguìto a questo avvenimento, con una visibile presenza del radicalismo islamico in quel Paese, soldi e materiale bellico in grande quantità – sia dell’esercito libico sia forniti dal Qatar ai ribelli anti-Gheddafi su autorizzazione statunitense – sono finiti nelle mani dei jihadisti sahariani. Sul piano della “catena di comando” non vi è dubbio che i ribelli maliani dispongano dell’esperienza di terroristi sperimentati provenienti dall’Algeria, dalla Mauritania, dalla Giordania e perfino dal Pakistan. Gente dura e abituata a combattere.
La tentazione di fare un parallelo fra l’Afghanistan e il Mali odierno esiste, a cominciare dal trattarsi di un territorio in sé ostile e difficile per chi non sia abituato a viverci. Tuttavia – almeno allo stato delle cose – si potrebbero opporre delle obiezioni di fondo. La distesa piatta del Sahara nulla ha a che vedere con le montagne afghane: è più simile a un immenso mare, il che rende il ruolo dell’aviazione, degli elicotteri da combattimento e dei droni assai efficace. Vi è poi il fatto della frammentazione dei ribelli maliani in più organizzazioni, quasi tutte islamiche, ma non tutte: infatti oltre all’Ansar Dine (maliana), all’Aqmi (algerina ma molto ramificata nel Maghreb) e alla Mujao (mauritana) esiste sempre – seppure al momento sconfitta – anche l’organizzazione autonomista tuareg Mnla, che si dice essere di impostazione “laica”, o comunque non radicale islamica.
In base alla realtà di ciò che chiamiamo il motivo, con la sua rilevanza strategica, Hollande può sostenere, con plausibilità formale e apparente, che la Francia non agisce per suo calcolo economico e politico. E d’altro canto il Mali per il suo Pil (prodotto interno lordo) è collocato dalla Banca Mondiale al 170º posto su una lista di 192 paesi, come fornitore della Francia si colloca al 165º posto e come suo cliente è l’87º, infine in quel paese vivono solo 5.000 francesi.
La situazione, però, muta abbastanza se ci rivolgiamo alla causa dell’intervento francese.
Cause e motivi dell’aggressione francese
Il Mali è una vera e propria cornucopia di materiali a vario motivo preziosi. È ricco di petrolio e di risorse energetiche notevoli. Nel Nord del paese – cioè proprio la zona di maggior subbuglio politico/militare – ci sarebbe un mare di petrolio e gas in quattro bacini: Taoudeni (presso Algeria e Mauritania), Tamesna (fra Mali e Niger), nella regione di Gao e nella faglia di Nara. Inoltre a 60 km. dalla capitale Bamako è stato scoperto un enorme giacimento di gas (98,8% idrogeno e 2% metano e azoto) a soli 107 m. di profondità, dal quale in prospettiva potrebbe partire l’approvvigionamento per tutta l’Africa occidentale a prezzi incredibilmente più bassi degli attuali. Nel sottosuolo, inoltre, contiene oro e di recente è stata inaugurata la miniera di Kodieran, da cui potrebbero essere estratte 1.000 tonnellate al giorno. Possiede anche il coltan (materia prima per la fabbricazione di telefonini) e per quanto riguarda l’uranio nella zona di Falea (a 350 km. a occidente di Bamako) è stato scoperto un enorme giacimento che, secondo le valutazioni riportate da Le Figaro, sarebbe di almeno 12.000 tonnellate, seppure al momento giaccia dove si trova per le difficoltà ambientali finora non superate dalle imprese interessate allo sfruttamento. Certo è che se il Mali cadesse nelle mani dei jihadisti ogni prospettiva futura sfumerebbe del tutto, con l’aggravante (non solo per la Francia) del notorio uso che si fa dell’uranio.
Tutte queste risorse fanno gola a varie imprese del settore e le hanno richiamate in territorio maliano. Ricordiamo, oltre alla Petroma (Societé d’exploitation du Mali), la francese Total, le canadesi Bumigeme e ABF Mines, l’algerina Sonatrach (mediante la sua controllata Sipex Internationale) nonché l’italiana ENI.
Tutta la critica situazione maliana si proietta inoltre sull’importantissima Algeria (come dimostra il recente attacco jihadista all’impianto di In Amenas, in atto mentre scriviamo), fornitrice all’Europa del 20% del fabbisogno di gas naturale, e sul Niger, paese il quale (povertà sociale a parte) è nel mondo il quarto fornitore di uranio, in particolare per la Francia alla quale – tramite l’Areva, società pubblica – invia un buon terzo dell’uranio usato dai 58 reattori nucleari del gruppo francese Edf. Non si trascuri il fatto che in quel paese la medesima Areva è impegnata nell’apertura di una gigantesca miniera di uranio a Imouraren, in prospettiva la seconda miniera del mondo dalla quale si prevede l’estrazione di almeno 5.000 tonnellate all’anno.
Esiste poi la Mauritania (altro paese poverissimo) in cui la francese Total (già impegnata in Nigeria e Angola) sta realizzando operazioni di sfruttamento di sempre maggiore rilevanza economica (e non solo). La causa, quindi, fa da struttura al motivo, e il motivo – pur con la sua autonomia – è legato alla causa.
Una non-conclusione
Del Mali ci si dovrà interessare ulteriormente nel futuro prossimo. Intanto va preso atto di quanto sia stato fallimentare per l’imperialismo l’intervento in Libia, in sé e in prospettiva. Coniugando la crisi maliana con le situazioni e i fermenti in atto nel mondo musulmano, non vi è dubbio che lo scontro globale con il radicalismo islamico sia ormai ben più di una prospettiva, dentro e fuori da quel mondo. Ma ancora una volta si deve sottolineare l’inefficacia delle misure meramente militari per sconfiggere i jihadisti & C (lasciando da parte per il momento considerazioni d’ordine etico, sociale o giuridico).
Resta un punto interrogativo su chi potrà e vorrà incentivare le misure politiche, economiche e sociali necessarie a tagliare la metaforica erba sotto i piedi dei jihadisti. Sul piano degli auspici c’è solo da sperare che gli Stati Uniti non intervengano con uno dei loro tipici “aiuti” devastanti, in quanto la situazione è già abbastanza grave di per sé.
E proprio alla luce di quanto accaduto in Libia e di quanto sta accadendo in Mali e del suo retroterra non casualmente il New York Times di recente ha sostenuto che queste esperienze dovrebbero essere di monito per Obama riguardo all’ipotesi di un intervento diretto in Siria, dove gli aiuti forniti via Qatar stanno palesemente rafforzando i jihadisti che combattono con il cosiddetto “Esercito Libero Siriano”, tenuto conto (a prescindere dal giudizio sul regime di al-Assad) del disastro assoluto che sarebbe la caduta della Siria nelle mani di forze che destabilizzerebbero tutto il Vicino Oriente, e non solo. Ma questa è un’altra storia.