Per non farci rubare il futuro

Oggi a Roma oltre 500 lavoratori dell’Alcoa manifestano davanti al ministero dello “Sviluppo” per rivendicare un diritto costituzionale. Il diritto al lavoro.
Vengono dalla Sardegna dove la disoccupazione tocca livelli altissimi a causa di un lento smantellamento del sistema industriale locale per far posto alla speculazione immobiliare e finanziaria. Di questa situazione è responsabile in primis la regione e poi un governo che ha permesso a Marchionne di fare piazza pulita della Fiom e alle multinazionali di giocare al ricatto occupazionale.
Se da un lato i lavoratori dell’Alcoa sono costretti a mendicare lavoro, presso l’ex banchiere Passera, tifando per la multinazionale svizzera, il ministro dell’interno si è premunito di organizzare l’accoglienza di questi lavoratori attraverso il dispiegamento di oltre oltre 1000 poliziotti in assetto antisommossa. Botte, manganellate e violenza repressiva sono stati il “preambolo” di una finta trattativa destinata a concludersi con un periodo di cassa integrazione e qualche ricollocazione.
Se questo governo (tecnocrate e servitore dei banchieri) davanti alla disperazione ed alla protesta di dei lavoratori Alcoa risponde con la forza armata significa che non solo ha fallito dal punto di vista economico ma anche sul versante sociale in quanto ai disoccupati ed ai lavoratori che chiedono lavoro risponde con la violenza e l’arroganza di chi non vuole essere disturbato nelle sue manovre di potere.
Non è casuale che in questi giorni, mentre il governo lascia sul lastrico migliaia di lavoratori l’attenzione di Monti sia rivolta allo spread e alla sua conferma alla direzione del paese, se non come primo ministro sicuramente al posto di Napolitano.
Da Pomigliano, all’Alcoa, al Carbisulcis, e in altre centinaia di aziende le lotte dei lavoratori per chiedere un lavoro si moltiplicano, come si moltiplicano le azioni “disperate” per mantenere un lavoro. Lavoratori costretti a scalare le torri, o a bloccare una miniera a – 400 metri di profondità o tagliarsi le vene sono testimonianze di lotte tenaci ma anche le conseguenze delle politiche sindacali che sull’altare del montismo hanno sacrificato la loro autonomia e e ogni prospettiva di cambiamento.
Lasciati colpevolmente soli dai sindacati e da una sinistra montista i lavoratori sono “costretti” a rinunciare ai loro diritti come a Pomigliano o come nel caso dell’Ilva di Taranto, rinunciare alla loro salute ed accettare che la loro azienda avveleni un’intera città pur di non perdere il lavoro.
In questo situazione drammatica solo la l’unificazione delle lotte può dare voce all’indignazione diffusa e al radicale desiderio di cambiamento aprendo un dibattito sul modello di sviluppo, per la ripubblicizzazione dei beni comuni, del welfare, per un reddito di cittadinanza, rilanciando l’iniziativa per un grande progetto di nazionalizzazione e di gestione pubblica dei settori industriali strategici, spiegando che dentro questo sistema capitalista lavoratori e cittadini sono destinati a subire nuove forme di schiavitù.
Ezio Casagranda

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