Porfido: una ricchezza pubblica gestita da privati

Abbiamo partecipato, sabato 17 dicembre, al convegno ”Quale futuro per l’industria del porfido” , organizzato dalla lista “Lavoro per la Valle di Cembra” presso il museo del porfido di Albiano.
Scriviamo queste brevi considerazioni nella speranza che possano essere un utile contributo, sebbene con una prospettiva un po’ diversa rispetto agli interventi della serata, e anche se avremmo preferito poter intervenire direttamente.
Prima di tutto va ricordato che quando si parla di porfido, si parla di un bene che è, in grandissima parte, di proprietà collettiva e solo in minima parte di proprietà privata.
Questo è di fondamentale importanza perché implica, per l’ente pubblico proprietario, una grande responsabilità soprattutto a livello di indirizzo e di pianificazione.
Sia la L.P. N° 6 del 1980, che la L.P. N° 7 del 2006, non sono riuscite a modificare la struttura profonda del settore e non sono soprattutto riuscite ad imporre una regolamentazione e a dare una direzione chiara e precisa di sviluppo; in parte per le ampie deleghe concesse alle amministrazioni locali (guidate sistematicamente da imprenditori del settore), in parte per limiti propri.
Vogliamo fare tre esempi per far capire meglio che cosa intendiamo:
il primo è relativo all’articolo 33 della L.P. n° 7 del 2006, rispetto al quale, la Provincia, aldilà delle roboanti dichiarazioni e delle minacce, ha finito per accettare le scelte dei consigli comunali dove, va detto con chiarezza, gli imprenditori hanno fatto valere fino in fondo i loro interessi e la loro arroganza.
Il secondo esempio è relativo all’aggregazione dei lotti cava di cui tanto si parla ma che rimane sostanzialmente nulla più che un auspicio.
Nei loro interventi, sia l’Assessore Olivi che il dott. Laner , hanno sottolineato che l’impresa è libera e nessuno può imporle di aggregarsi con altre imprese.
Noi pensiamo, invece, non solo che l’ente pubblico possa imporre l’unificazione dei lotti, ma anzi, che lo debba assolutamente fare in virtù del fatto che l’impresa non sta gestendo un bene di sua proprietà ma bensì un bene di proprietà collettiva (non solo moralmente, ma anche formalmente e giuridicamente).
L’accorpamento è un elemento imprescindibile di razionalizzazione di cui il settore, nel suo complesso, non può fare a meno se vuole guardare avanti.
Purtroppo, nell’ultimo piano cave approvato in ordine di tempo, cioè quello di Baselga di Piné, si è scelto, ancora una volta, di lasciare tutto alla buona volontà e alla spontaneità, sperando che quello che per cinquant’anni non si è fatto, si faccia, improvvisamente, oggi.
L’ultimo esempio riguarda la cassa integrazione straordinaria che molte aziende hanno chiesto nell’ultimo anno per far fronte alle difficoltà di mercato. Non comprendiamo come questa situazione possa ancora convivere con il sistema del cottimo che, come ben sappiamo, è un sistema che incentiva enormemente la produzione.
Questa “convivenza” sta determinando situazioni contraddittorie e paradossali di aziende che dal lunedì al giovedì lavorano normalmente a cottimo e il venerdì mettono in cassa integrazione straordinaria perché non riescono a vendere il materiale.
Già tre anni fa abbiamo fatto una serie di proposte per un riassetto complessivo del settore e per affrontare la crisi nell’ottica di garantire, in primo luogo, il mantenimento dei livelli occupazionali e che siamo disponibili a illustrare e discutere.
Siamo convinti che, mai come oggi, l’interesse del singolo imprenditore sia diverso e divergente dall’interesse del settore nel suo complesso e sia soprattutto diverso e divergente da quello delle comunità locali.
Crediamo sia necessario un ruolo di guida forte che sappia superare, da un lato, lo storico e mai risolto conflitto di interesse tra amministratori locali e concessionari; dall’altro lato che sappia imporre dei vincoli stringenti per esempio rispetto all’aggregazione dei lotti cava, al mantenimento dei livelli occupazionali all’enorme problema dei ripristini ambientali.
Senza voler fare i mestatori, è realistico pensare che, se e quando le concessioni saranno messe all’asta, il porfido sarà un settore assai poco interessante dal punto di vista economico e richiederà, piuttosto, enormi investimenti per il riassetto del territorio devastato dalle cave.
Vorremmo evitare che, ancora una volta, come già successo per la frana del Graon, negli anni 80 oppure per lo Slavinac più recentemente, questi costi ricadano ancora sulla collettività in barba a tutti i vincoli e ai patti sottoscritti dalle aziende.
Negli anni 90 la Provincia di Trento aveva commissionato quello che ci risulta essere, ad oggi, l’unico studio che si poneva nell’ottica di uno sviluppo più razionale del settore non solo economicamente ma anche dal punto di vista ambientale.
Uno studio fatto con una prospettiva temporale che comprendeva l’escavazione ma anche il ripristino ambientale come parte stessa della fase di coltivazione.
Si tratta dello studio fatto in collaborazione con l’Università di Pomona (U.S.A.) e di cui si è persa ogni traccia anche perché applicarlo avrebbe significato mettere in discussione l’assetto del settore per come si era “spontaneamente” realizzato.
In estrema sintesi il principio era quello di dividere l’area estrattiva in macrolotti omogenei e procedere nella coltivazione per zone; si scavava completamente un macrolotto e poi, lo scavo nella zona successiva, doveva servire anche per ripristinare le zone già coltivate.
In questo modo si risistemava mano a mano anche il territorio oltre ad avere una maggiore razionalità di escavazione.
Senza un indirizzo il settore del porfido avrà un futuro che sarà più o meno identico al suo passato, con la sola differenza che ad un certo punto non ci saranno più montagne da scavare ma solo buchi da riempire, magari con rifiuti di qualche tipo.
E gli operai, che sono già quasi dimezzati rispetto a qualche anno fa, potranno finire nel nuovo museo del porfido dove sono forse l’unico elemento mancante.

19.12.2011

Sandro Gottardi, Ferrari Graziano, Negri Giorgio

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