Lavoro festivo o morte. Il caso di una commessa Eurospin

Il lavoro festivo è economicamente inutile (i consumi non sono affatto aumentati da quando Mario Monti lo impose come “normalità”), ma serve soprattutto a stabilire un rapporto di potere sui dipendenti. Un dispositivo dispotico contro cui #poterealpopolo si è mobilitato il 26 dicembre, dando seguito a una delle campagne condotte da anni dall’Usb.
La riprova arriva da una notizia di cronaca che ha trovato spazio anche sui media mainstream forse grazie al luogo in cui è avvenuta: Susa, la valle della resistenza No Tav.
L’episodio è semplice nella sua brutalità. Una commessa della catena Eurospin non ha accettato di lavorare il prossimo 31 dicembre. L’azienda, per “punizione”, l’ha trasferita per una settimana in una filiale a 100 km di distanza.
La donna, una madre di famiglia con due figli, è una delle poche fortunate ad essere stata assunta, anni fa, con un normale contratto a tempo indeterminato, su cui è scritto a chiare lettere che ha diritto al riposo nei giorni festivi. Il festivo, eventualmente, è possibile per scelta volontaria. Nessuno può insomma obbligarla.
Eurospin – che come tutte le catene della grande distribuzione si affida a campagne pubblicitarie molto patinate e gradevoli, dense di “attenzione per il cliente” e prezzi bassi – evidentemente ritiene un “orpello del passato” quel diritto scritto in un contratto. Non potendo licenziarla, ha reagito con un trasferimento punitivo.
“L’ispettore ha detto che c’era improvvisamente bisogno di un altro lavoratore a Cuorgnè (98 km da Susa, ndr). E’ strano che fra tutti abbiano scelto proprio me, così all’improvviso, dopo che ho rifiutato di lavorare di domenica. Ho subito risposto che non avrei accettato un simile provvedimento. Mi hanno anche mandato la comunicazione scritta. Gli orari che dovevo svolgere erano strani, ad esempio sarei dovuta andare dalle 16,30 alle 20,30, così da tornare a casa più tardi ancora”.
Il buon vecchio contratto, per fortuna, vieta anche questo tipo di trasferimenti temporanei a grande distanza, ma è palese che l’azienda è entrata ormai in un trip repressivo che difficilmente si arresta davanti ai limiti contrattuali.
Non è neppure la prima volta che viene “punita” con un trasferimento temporaneo. Era già successo per aver rifiutato di frequentare un “corso di aggiornamento” in altra sede; ma in quel caso era stata spedita ad Orbassano, pochi km da casa, e dunque aveva obbedito.
La commessa ha provato a limitare i danni presentandosi comunque sul suo normale posto di lavoro, a Susa, nel giorno in cui era stata “comandata” a Cuorgnè. E “il superiore” l’affronta subito per ordinarle di andare dove le è stato imposto.
Il resto è cronaca da guerra ai poveri. La commessa si sente male per lo stress (capisce benissimo che sta rischiando il licenziamento, e non se lo può permettere visto che il marito ha perso il lavoro), i clienti assistono perplessi e solidali, viene ricoverata e i medici riscontrano il forte “stato d’ansia”.
Nei giorni successivi ha ripreso a lavorare nel solito posto. Ma è chiaro a tutti che qualcos’altro accadrà.
Voi penserete: beh, è della Val Susa, sarà una “antagonista” barricadiera… Non sembra. Il sindacato cui si è affidata, in fondo, è la malleabilissima Cisl.
Il problema vero è che alle aziende non basta mai. Ti devono spremere fino all’ultima goccia. Poi ti buttano via….
Fonte: redazione contropiano.org

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