Quando a morire sono i bambini
Che cosa succede alle nostre coscienze ormai assuefatte a tutti gli orrori quando, a tavola o sdraiati sul divano di casa, assistiamo alle immagini e alle notizie dei telegiornali che ci raccontano l’ennesima tragedia che riguarda i bambini siriani o quelli palestinesi?
Noi, che siamo genitori, nonni, educatori, cittadini del mondo, abbiamo appreso sgomenti che le famigerate bombe a grappolo, le cluster tristemente note sin dalle guerre in Afghanistan e in Iraq, denunciate a più riprese dall’ONU e dalle ONG, hanno colpito stavolta un gruppo di ragazzini che avevano approfittato di una momentanea tregua nei bombardamenti per uscire a correre e a giocare in un polveroso campetto di calcio alla periferia di Damasco.
La voglia di vivere aveva preso il sopravvento sulla paura, in questo scampolo di autunno ancora tiepido.
Ne sono morti 10, di età inferiore a 15 anni.
Questa è la guerra, bellezza, pare abbiano affermato gli stati maggiori del governo di Bashar al Assad, il presidente siriano che si è macchiato dei peggiori crimini contro la sua gente. In una guerra civile che ha visto gli organismi internazionali assistere impotenti a stragi di civili e alla distruzione sistematica di città e paesi, di monumenti, di arte e cultura.
Ma quando si parla di bambini qualcosa dentro di noi si ribella e viene voglia di gridare: “Basta, ora basta!”.
Perchè i bambini e i ragazzi sono la parte migliore di noi, quella che, in Siria come in Palestina, in questi giorni dolorosi perde la vita, i familiari, il diritto all’istruzione e alla salute.
E, quando sopravvive, smarrisce in modo irreparabile l’innocenza, la voglia di ridere e giocare, di amare e di essere amati.
E a poco servirà il lavoro dei volontari, degli psicologi, di quanti da anni, come nel caso della Palestina, si occupano di queste creature spaventate, mutilate nel corpo nello spirito.
Sono bambini spesso affetti da patologie psichiatriche e disagio psicologico, che hanno perso la voglia di vivere e di sperare, che arrivano a vere e proprie schizofrenie, che mettono in atto lo “sciopero della parola”, diventano afoni: non hanno più le parole per dire il dolore, per gridarlo, per affermare il loro diritto alla gioia e alla serenità.
Hanno perso in molti casi la propria abitazione e vivono correndo, sfollati dai bombardamenti, nascosti alla vita, a quella semplice normalità che è indispensabile per diventare grandi in modo armonioso.
Gaza, che ancora una volta si conferma “l’inferno di Gaza”, il luogo con più minori sulla faccia della terra, dove la violenza agita è il risultato di quella subita da oltre mezzo secolo, è il paradigma del dolore dei bambini in questo mondo di adulti irresponsabili, che si sono fermati all’aggressività e alla prevaricazione come cifra della relazione con gli altri.
L’età della pietra è molto vicina, il modo virile e prettamente maschile, mi sia consentito, di risolvere i conflitti guerreggiando e non negoziando, la fa ancora da padrone in tanta parte del mondo e a farne le spese sono i più piccoli e i più fragili. Destinati purtroppo a ripetere all’infinito, se sopravvivono, la legge del taglione, del più forte.
Di chi ha più potere, più soldati, più bombe cluster. Di coloro per cui la morte di essere umani rappresenta un incidente di percorso, un effetto collaterale da mettere nel conto. A Gaza come in Siria non bastano più le strutture sanitarie e gli ospedali, né coloro che vi si prodigano per salvare vite umane. Non bastano più gli aiuti umanitari che distribuiscono acqua, cibo e assistenza, che incoraggiano e consolano.
Non ci sono più lacrime da piangere negli occhi delle donne e degli uomini che vediamo camminare con i loro piccoli inerti avvolti nel bianco del distacco, della lontananza senza ritorno. E questo accade ora, nel 2012, mentre il mondo aspetta il Natale, Natale in tempo di crisi ma pur sempre Natale.
E ai nostri bambini, che non sono diversi da quelli di Damasco e di Gaza, luccicano gli occhi mentre rimirano il bellissimo albero color argento di Piazza Duomo e nel cielo risplendono la luna e le stelle.
E questo dovrebbe essere garantito ad ogni bambino in ogni parte del mondo: ma la pace è la condizione per cui tutto possa avvenire.
E’ compito di ciascuno di noi, politico o privato cittadino che sia, spendere un po’ del proprio tempo, delle proprie risorse, della possibilità di influire in qualche modo sulla politica internazionale per sottoscrivere appelli e sostenere le organizzazioni, e sono tante, che si occupano concretamente del diritto alla vita, ad una vita in pace, per tutti i bambini del mondo.
Ogni goccia d’acqua, in questo oceano di disperazione, è importante, crediamoci! Un mondo migliore di questo è sicuramente possibile.
Lucia Coppola
Per non concederci respiro di tristezza e dolore e affondare tutta la rabbia e repulsione in forza politica di protesta e azione….
Stamattina speravo di sentire dalla giornalista donna di “prima pagina”, notizie sulla tragedia in Bangladesh dove sono morte bruciate
120 persone(specialmente donne).
Tragedia che è potuta accadere perchè tutte le porte erano sprangate.
Tragedia non nuova in quella zona del mondo, che fa la ricchezza di pochi mecenati con lo sfruttamento
bestiale di ogni categoria di essere umano. Industrie prive di tutele e diritti, il cui comando è in occidente, producono capi di abbigliamento per noi(non per loro).
L’anno scorso una simile tragedia in Pakistan ha portato alla morte 250 persone.
L’occidente e L’Italia hanno altro a cui guardare(?), ma il sangue innocente di questi “dannati della terra” è sulle nostre coscienze.
Grazie per l’attenzione.
Antonio Marchi-trento